C’era una volta un’Italia dove l’ambizione della maggior parte dei suoi abitanti era quella di avere il posto fisso, ovvero la possibilità di barattare la propria libertà e la propria creatività con una serie di privilegi, come un’entrata fissa, la tredicesima, la pensione e la possibilità di chiedere un mutuo per potersi legare ad una banca.
Quell’Italia (e buona parte del mondo occidentale) era ancora figlia della rivoluzione industriale, ovvero del momento in cui, verso la metà del Settecento, le nuove tecniche di produzione si sono diffuse nelle fabbriche e c’è stata un’improvvisa accelerazione nel modo di produrre, con la relativa spinta a consumare per continuare ad alimentare il ciclo.
Poi il mondo è cambiato, ma qualcuno al Ministero dello Sviluppo Economico sembra non essersene accorto. Da una parte è arrivata la rivoluzione del web, che ci ha connessi tutti e che ha permesso la smaterializzazione di tanti processi attraverso i legami della rete. Dall’altra è arrivata la “crisi”, che ha spazzato via tutte le certezze e le sicurezze e ci ha sbattuto in faccia la verità: ci siamo svegliati e abbiamo capito che il vero potere non veniva più da quello che si produceva nelle fabbriche e che si poteva toccare con mano, ma dai piani alti di qualche grattacielo della finanza in qualche Stato nel mondo.
E’ in questo nuovo contesto che ogni trimestre esce il “Cruscotto Congiunturale” da parte del MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) con i suoi fior fior di indicatori che dovrebbero misurare la febbre della nostra economia.
Fra gli indicatori troneggia la produzione industriale, ovvero l’insieme delle attività relative alla trasformazione delle materie prime in beni di consumo, e l’indice dei consumi, mentre non c’è traccia di un indicatore che misuri il tasso di riutilizzo, di condivisione, o di possesso dei beni, ovvero della nuova modalità di impiego dei beni che sta sostituendo sempre di più la proprietà.
Sbirciando fra gli altri indicatori troviamo anche:
– le nuove immatricolazioni di auto, che hanno ricominciato a salire, ma che non raggiungeranno mai più i livelli del passato anche a causa del diffondersi del car sharing;
– la domandadi energia, come se consumare più energia fosse sinonimo di sviluppo, quando all’interno delle abitazioni e negli edifici commerciali si va sempre di più verso il Bilancio Energetico Zero;
– il traffico delle merci, ovvero più si trasportano merci più siamo ricchi, quando sappiamo tutti che è più sensato, etico ed economico cercare di abbracciare il “kilometro zero”;
– il tasso di occupazione, mentre a nessuno interessa il tasso di soddisfazione del proprio lavoro, compresi i sindacati che invece avrebbero dovuto occuparsene da un pezzo.
E soprattutto c’è il PIL, il Prodotto Interno Lordo, che rimane il principe degli indicatori anacronistici. Nell’economia “emozionale” del futuro, dove saranno sempre meno importanti i prodotti e sempre più importante l’uso che se ne farà e il livello di benessere che ci daranno, il PIL sarà destinato a soccombere a favore del più moderno FIL, che misura la Felicità Interna Lorda di un paese.
Forse sarebbe il caso di iniziare pensare ad un nuovo sistema di parametri, visto che su questi il Governo fa delle scelte che influiranno pesantemente sulle nostre vite e su quelle dei nostri figli.
Se guardiamo alle aziende più evolute è già da tempo si parla di “bilanci sociali” ovvero di un insieme di indicatori e di informazioni non solo quantitativi ma anche e soprattutto qualitativi che diano realmente conto dell’impatto dell’azienda su tutti i suoi interlocutori e sul livello di benessere prodotto nella società.
Perché i numeri hanno sicuramente il vantaggio della sintesi, ma in un’economia sempre più complessa e immateriale mostrano tutti i loro limiti. Soprattutto se misurano le cose sbagliate.
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